Ci siamo mai chiesti che
senso ha avere la chiara dimensione e percezione del luogo in cui ci troviamo? Ci
siamo mai posti il problema di capire che relazione c’è tra noi e il luogo che
stiamo occupando in un dato momento?
Probabilmente la
risposta è no, data la frequenza con la quale ci spostiamo da un luogo ad un
altro, senza prestare un’attenzione maggiore di quella dovuta al momento
specifico.
Solo in momenti in cui
si destabilizza il fragile equilibrio dettato dal luogo comune per cui ogni spazio
ha una funzione specifica e ben circoscritta, solo quando qualcosa o qualcuno
interrompe il flusso veloce delle relazioni che in un dato luogo si realizzano
comunemente e ripetitivamente, accade di interrogarsi. Il massimo che facciamo,
però, è cercar di capire chi o che cosa è “fuori luogo” e perché.
Il logorìo delle
relazioni che stabiliamo con gli spazi che frequentiamo parte dalla frenesia,
per arrivare alla realizzazione del “non-luogo”;
inizialmente
la relazione che stabiliamo con i luoghi che frequentiamo è pressoché psichedelica,
dura il tempo necessario ad assolvere ad una data funzione, dopodiché tutto si
spegne. E questo può spiegarsi con la velocità con cui siamo costretti (o costringiamo noi stessi) a vivere le
nostre giornate.
Successivamente,
però, alla frenesia dettata dalle varie cose che abbiamo da fare, a mano a mano
che prendiamo padronanza dei compiti che ci spettano ogni giorno, si
sostituiscono le scorciatoie che attiviamo ogni volta che ci è possibile. E
riusciamo a vivere la nostra vita anche in luoghi lontani da noi, addirittura inesistenti,
virtuali, nei quali si generano le stesse conseguenze che si genererebbero
nello stesso istante, se noi fossimo fisicamente presenti. Provate anche solo a
pensare a quello che accade, ordinando una pizza attraverso la pagina facebook
della pizzeria, dopo averla rapidamente scelta attraverso il menu “on-line”.
Il problema è che,
però, noi non possiamo prescindere dalla relazione che fisicamente abbiamo, sia
con il tempo, sia con lo spazio, perché sono coordinate insite alla nostra
stessa condizione umana.
Nonostante ciò, siamo
oggi nella possibilità di dominare entrambe le coordinate…o almeno questo è quanto
a noi sembra di riuscire a fare.
Avete mai provato a
vedere quanto riuscite a resistere fermi in uno stesso luogo, senza voler scappar
via dopo i primi minuti necessari per capire cosa potreste fare o cosa avete
anche terminato di fare? Pensate ad una chiesa per esempio o ad una sala
riunioni o semplicemente passeggiando lentamente lungo una strada. Dopo qualche
minuto Vi prende una irrefrenabile voglia di andar via o di fare altro, se in
quel dato momento non riuscite a percepire subito una ragione secondo Voi
valida.
Non pensereste mai,
nell’immediato, che la ragione valida per “restare” in un dato luogo possa essere,
semplicemente, quella di metabolizzare la relazione che Voi stessi avete con
quel luogo specifico. A meno che non siate stati Voi stessi a decidere di
fermarVi a indagare su questa cosa. Pensate a quando Vi capita di entrare in
una chiesa: se lo fate per così dire “incidentalmente” (magari per far compagnia ad un amico che Ve lo chiede) è un conto;
dopo un po’ non vedrete l’ora di scappar via. Altro però è se siete appassionati
di arte e siete Voi, in un dato momento, a decidere di recarVi ad osservare gli
affreschi sulle pareti.
Badate, ciò di cui
parlo non è collegato a quanto accade in conseguenza dei nostri desideri, ma a quanto accade in
conseguenza delle decisioni che
prendiamo frequentemente e meccanicamente, senza più farci caso, data la
routine a cui siamo ormai assuefatti. Postulando, perciò, una distanza tra i nostri
desideri e le nostre decisioni, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Tutto questo per dire
che non sempre accorciare le distanze migliora la qualità della nostra vita. A
qualcuno sembrerà una colossale ovvietà, ma sono convinto che non tutti ci
fanno caso. Ed è per gli altri che scrivo.
Una volta da ragazzi,
noi stabilivamo una relazione particolare con la nostra cameretta, qualcosa di
intimo, di privato, quasi di…“sacro e inviolabile”. Oggi un ragazzo non ne
sente più il bisogno, perché la propria…“intimità” è racchiusa nei gb del
proprio i-phone con tutte le funzioni che possiede.
La relazione che oggi
si stabilisce con lo spazio, è dannatamente “virtuale”: dannatamente perché
diventa reale nelle conseguenze finali che alla lunga prendono il sopravvento
sul piano valoriale, rispetto al “percorso” necessario per raggiungerle.
Un ragazzo gestisce la
relazione tra se stesso e la propria stanza in chat, piuttosto che con la
propria piattaforma facebook, oppure su un blog. Col vantaggio (apparente) di poterlo fare in qualunque
momento, entrando e uscendo dai suoi spazi, tutte le volte che lo dovesse
decidere.
Non è vero che è un
vantaggio.
Quando ero ragazzo, in
camera ci restavo a fare i compiti, oppure quando ero malato. Per qualcuno “rimanere
in camera propria” poteva anche rappresentare una punizione. Oppure ci si
restava per non ascoltare i discorsi dei “grandi” in salotto…i tempi di
permanenza in un luogo erano dettati da regole che erano collegate con singoli
momenti di vita e che aiutavano a scandire gli stessi momenti e ad assaporarne
il significato e a metabolizzare certi valori che anche così passavano all’interno
dell’educazione e della formazione personale.
Praticamente spazio e
tempo erano due coordinate che ci accompagnavano “insieme”. Ed insieme ci
davano la possibilità di interiorizzare le relazioni che stabilivamo sia con le
persone, sia con i ruoli che esse ricoprivano, sia con la nostra “posizione”
all’interno di ogni singolo contesto.
Andare a separare
spazio e tempo fino al punto di avere l’illusione di riuscire a fare a meno di
entrambi, adesso, determina una confusione di momenti, di ruoli e anche di personalità,
alla quale è molto difficile porre rimedio. Anche perché sul piano percettivo
non si sente il bisogno di rimediare a nulla.
Sul piano percettivo il
luogo si confonde con il non-luogo, quello virtuale. Ed è quest’ultimo ad essere
preferito, perché è quello dietro il quale ci si può nascondere a piacimento, “senza
correre il rischio di esporsi”. Possiamo essere chiunque dietro a un monitor o
a un piccolo lcd, non dobbiamo “preoccuparci di dover necessariamente apparire
credibili”. Questo ci pone di fronte alla prospettiva di poter mentire e di non
doverci necessariamente assumere certe responsabilità, con la certezza di
uscirne impuniti.
Fortunatamente anche le
comunità “virtuali” stanno affinando le proprie regole di comportamento, ma non
è la sostanza che cambia.
Oltretutto, la
possibilità di arrivare ovunque e in qualunque momento, ci priva della
possibilità di “vivere” il percorso, il “passo-dopo-passo”, le difficoltà
insite nella strada che ci porta da una parte all’altra, da un momento all’altro.
Regalandoci, di contro, l’illusione di poter “viaggiare” senza alcuna
difficoltà. E siccome inevitabilmente ci tocca poi scontrarci con la realtà (almeno finché il teletrasporto non diventi cosa
concreta e comune), la disabitudine a gestire certe difficoltà, ad assaporare
i singoli momenti e i singoli spazi, a lasciarceli “vivere” dentro, ci rende
degli androidi molto simili a quelli dei nostri smartphone, senza capacità di
gestire la nostra emotività, i nostri sentimenti. Il ché non vuol dire annullare
sentimenti e emozioni, ma essere incapaci di gestirli.
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